ATLANTICO 3

IN ATTESA
DEGLI ALISEI

Pareva che non si volesse più partire, un giorno, due, tre fermi. A lavar patate, a stivare e ri-stivare la cambusa. Poi, dopo una giornata uggiosa di pioggia e di malumore, il lavorio incessante e inconcludente dello skipper. Avanti, indietro, controlla qui, controlla là (“no, qui ho già controllato. Cosa manca? Ah sì”). Non si decideva. Noi eravamo tutti pronti. Noi, gente di barca, del Tigullio e della Maddalena, Glènans, Caprera. Gente capace di stringere con 40 nodi, di ormeggiare sotto vela a motore morto, di dar fondo all’ancora con la bora di traverso. Piede marino, calli da scotta, “mal di mare, e che cos’è?” Musi lunghi convergenti, di noi quattro, verso il Mario, sessantottino romano bene dell’ultrasinistra di Lotta Continua “sublimato” dai libri di Moitessier e Tabarly, dai Tantra, Veda ed altre vaghezze buddiste. Infine, imprigionato da noi: “E allora, si parte?”

Sono arrivate le sette di sera che abbiamo filato le cime d’ormeggio, abbiamo accostato la banchina del gasolio, fatto duecento litri. Mario, esperto nel manuale del piccolo skipper, ci ha fatto allineare in coperta, la monetina in mano per il lancio “propiziatorio” dietro le spalle prima della partenza. Come alla Fontana di Trevi, molto “pittoresco”, credo solo per qualche vedova settantenne a caccia di emozioni.

Poco vento su barche come questa significa motore. Nel silenzio del mare e della notte il motore scaccia ogni angoscia. Il battere ritmico, violento e attutito ti rende sordo, dopo un po’ non lo senti più. E basta un nulla, una piccolissima variazione perché ci si accorga che sta succedendo qualcosa. In ogni caso, lasciato il Puerto Deportivo con rotta 180, la prua puntava a sud verso le Capo Verde.

Iniziava il meccanismo perverso delle “guardie” (altra cosa tipica delle traversate e degli oceanici). quattro ore di giorno e due  di notte al timone. Sì, perché l’Autohelm, il pilota Automatico non si attacca mai perché “consuma”, “si rompe e quello costa un sacco”, “eppoi dovete familiarizzarvi con la barca”.

Quindi timone. Ed anche questa è da raccontare sulle barche francesi Anni Settanta e su quegli skipper eroici che hanno pagato di persona le velleità filosofiche dei progettisti dell’avanguardia di sinistra, quelli che sono democratici fin che gli dai sempre ragione. Al mondo esistono due tipi di modi per comandare i timoni, le pale nell’acqua che comandano la direzione della barca: la “ribolla” e la ruota, l’asta o barra, e il “volante”. La prima incrollabile, infrangibile, sensibilissima ma faticosa, la seconda comoda e pratica, ma costruita con la filosofia del preservativo: si sente poco, spesso si rompe, e dopo è un casino.

Gli impagabili inglesi e americani dello yachting, ne inventarono un terzo tipo -probabilmente una revanche dei Giles, dei Burgess, dei Fox, degli Stephens sui loro committenti troppo ricchi-, la ruota rovesciata (scelta spesso determinata dal disegno della barca e dalla posizione della pala nell’acqua rispetto allo scafo, peraltro). Ma la si pilota comodamente, seduti a cavalcioni o di lato, seduti comodamente su un sedile “umano”.

Sul Vistona, del mio compianto amico Gianmarco Borea d’Olmo, il timone era di questo tipo e funzionava abbastanza bene (era una barca straordinariamente equilibrata e il timone non lo si toccava quasi mai). Su questa no. Sì perché questa barca aveva la ruota invertita. Non la si poteva controllare a cavalcioni da dietro perché nell’immediato ridosso aveva una bolla di plexiglass (uno degli infiniti malanni di Moitessier), di quelle che servono quando il mare diventa impossibile. Normalmente, un intrigo. Di lato non c’era posto.

Abbiamo scoperto che c’era solo un sistema (scomodissimo), mettere tre cuscini contro il plexiglass, due sotto il sedere e starsene distesi di traverso, i piedi puntellati su un winch e pilotare con una mano. Oppure in piedi, stile “capitani coraggiosi” con la ruota dietro, da tenere con entrambe le mani. Molto, molto pittoresco.

Il vero problema era che la barca non aveva assolutamente stabilità di rotta, cioè andava dove voleva lei: bastava lasciare la ruota del timone per un attimo e -incredibile per un 14 metri- in un nanosecondo si traversava. Per capirci, la guardia al timone era un lavoro incessante per stare in rotta dentro i dieci gradi della bussola, cinque a destra, cinque a sinistra.

Motore la notte, motore l’indomani con l’arcipelago che sfilava a nord. Qualche “termica” aveva fatto la sua comparsa, ma le venti tonnellate di questo Damien non conoscevano vento se non oltre i 15 nodi. Mare liscio come l’olio, traslucido, iridescente. A destra una “caretta caretta”, tartaruga marina, dopo qualche ora uno sbuffo e il dorso nero di un’orca solitaria. Verso sera, un branco di delfini giocattoloni.

Nel deserto infinito che noi chiamiamo oceano se c’è una cosa meravigliosa è l’incontro con queste creature straordinarie. La magia consiste nell’incrociare lo sguardo intelligente di questi animali bellissimi. Si starebbe per ore a conoscerli. Sono loro i veri padroni del mare, e i loro giochi sono la loro felicità dell’incontro con te , e un benvenuto. Incontrare i delfini dà gioia e una grande pace.

Si mangia. Ho preparato fusilli con melanzane. Qui, a turno si fa il cuoco, il cameriere, lo sguattero. E a chi tocca, tocca. Io in cucina me la cavo, ma Franco, dirigente Ibm in pensione con due transpacifiche alle spalle è un disastro, Flavio (trekking andino, rafting, paracadutismo) ci prova, Luca (Glenans) sperimenta, il “romano” (istruttore a Caprera) emula i piatti di mamma, sempre gli stessi.

Giornata fiacca, avviamento lento. A notte si mette l’Autohelm e si lascia a lui l’incombenza di portare la barca. Improvvisamente, è quasi l’alba, la barca comincia a sbandare e a rollare furiosamente. Si sale in coperta e il paesaggio è totalmente mutato. Onde di due, tre metri scendono da nord, alla nostra destra. Sono colline d’acqua che corrono veloci, onde lunghe, messaggio di quanto succede a tremila chilometri più in su. Si sale e si scende, come sulle montagne russe. Poco vento, ancora motore. Si balla troppo. Si manda su rovesciata, con la punta di sotto una trinchetta, a frenare il rollio. Poco, ma qualcosa fa.

A sera, un dieci nodi da poppa ci illude e mandiamo a riva il genoa.

Due giorni così, centoventi miglia al giorno (siamo in media) quando arriva felicemente una specie di aliseo. Non è stabile, va e viene, ma c’è. Fuori i tangoni, su i fiocchi gemelli. Rinforza. Si va, 6, 8, 10 nodi. La “barcaccia” mostra quanto è infelice e sbagliata: i fiocchi sono sull’albero a prua (troppo in avanti) e troppo disassati rispetto al centro barca, il timone è ingovernabile, il rollio è pazzesco. Il “romano” e Luca, Caprera e Glenans compaiono col cerotto anti mal di mare dietro l’orecchio. Stare in cuccetta è come nei cartoni animati di Gatto Silvestro, si dorme puntellati, gambe e piedi. Se si lascia la posizione si rotola e si va a sbattere contro la murata o si precipita a pagliolo. Comunque si corre. Poi la barca straorza, gira tutto a destra violentemente, quindi si raddrizza. E uno urla al timoniere- “Tienila dritta, cazzo”.

Sul finire della notte, durante la mia guardia, il vento rinforza sui 25/30 nodi, il mare si ingrossa a formare onde di due, tre metri, qualcuna anche di più, che frangono. Schiuma e spruzzi.

Tener dritto quest’accidente è frustrante, correggi a destra e quella va troppo a destra, riprendi a sinistra e quella si precipita a sinistra: solo gli ultimi giorni avevamo imparato come fare.

“Affondala”, dicevo a Mario, che non mi amava proprio.

Ma dopo le due ore al timone era obbligatorio ficcarsi in cuccetta a riposare. Comunque, ecco l’Atlantico, quello letto sui libri, quello che ci ha portato tutti qui, una bestia. Grande e potente. E tu ti senti piccolo-piccolo, e il centimetro e mezzo della lamiera ti rassicura, quando l’ondata da nord si spiaccica sulla murata di destra esplodendo in secchiate sulla coperta.

Sergio Dall'Omo al timone
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