Non secondario, il ruolo di Venezia (come di ogni realtà). La città è diversa da qualsiasi altra, è curiosa, sorprendente, contraddittoria. Forse non è bellissima come certa retorica impone: il campanile di San Marco e il ponte di Rialto sono brutti, la basilica marciana è un panettone mal lievitato, la Piazza è sbagliata, chiusa com’è sul lato migliore, cioè a sud; per il resto è svuotata, e chiusa. Non c’è un panificio a pagarlo oro. Solo dozzinale ciarpame ovunque, vetrucci e mascherette; in centro, soliti negozi extralusso che si trovano –in fotocopia- a Dubai, ad Atlanta, a New York e Singapore. Eppure Venezia possiede due cose che la rendono unica (anche sotto il profilo fotografico): il fascino e il mistero. E qui, sfocatissima e quasi inavvertibile, c’è l’anima di questa città. Si può benissimo dire che l’imbelle patriziato veneziano, una massoneria imbecille, il piccolo caporale corso e le sue armate imperial-rivoluzionarie, l’aquila asburgica, le bande savoiarde, il fascismo ed infine il centralismo romano hanno cancellato, distrutto, obnubilato questa millenaria civiltà, le sue tradizioni, la sua luminosa aura di storia e cultura. Venezia ha perso i suoi abitanti, la città che “mai diventerà un museo”, è diventata solo museo, alberghi, trattorie care e mediocri. I veneziani? Commesse e camerieri, perlopiù.
L’amarezza del veneziano in me, non si stempera davanti ai restauri mal fatti, seppur ricordi bene la città miserabile e fatiscente della mia infanzia. Il veneziano orgoglio che talvolta emerge in qualcuno si traduce in ottuso livore, in banale e patetico revanscismo.
A migliaia, case e palazzi sono chiusi e disabitati, bene rifugio di stranieri che diventano ogni anno più ricchi per l’incremento del valore immobiliare. Ora, aggirarsi per queste calli deserte, lungo canali dove ormeggiano barchette di plastica a motore, intercalandosi pizzerie e bar, bar e pizzerie, con una macchina fotografica può essere disperante. Eppure l’anima di Venezia c’è ancora, aleggia come una nebbiolina che sfoca il presente e rimanda alla dimensione mitica della gente e della vita della remota Repubblica dei Dogi. La gloria appartiene a otto secoli fa, dogante Enrico Dandolo; lo splendore al sublime Quattrocento fino alla catastrofe del Dogado Foscari che voltò le spalle al mare. Mentre Colombo approdava ai Caraibi –che riteneva fossero le Indie- il mondo si alleava contro questo piccolo Stato e lo metteva in ginocchio. Poi Venezia cambiò, imboccando rapidamente la china del precipizio, sopravvivendo, di illusione in illusione, per due secoli. Mastodontiche architetture di pietra a testimoniare un potere vantato ma svanito, miseria e nobiltà, fulgore dell’apparenza, della commedia dentro e fuori i teatri, dell’arte più sublime, dei casini, delle feste, delle villeggiature. Poi la miseria assoluta, a bollire gatti e sorci, mentre Napoleone violava la Piazza, demolendo una chiesa per farci una sala da ballo, scalpellava stemmi e lapidi, rapinava arredi e opere d’arte, distruggeva con crudeltà sistematica l’Arsenale e la storia della Repubblica. Con gli austriaci che vendevano a poco titoli nobiliari imperiali, riempiendo la città di conti e contesse. Le Terre del Leone, Istria, Quarnaro e Dalmazia, abbandonate e dimenticate, con l’ultima bandiera di San Marco sepolta sotto uno scalino della chiesetta di Perasto alle Bocche di Cattaro, e il grido “Ti con nu, nu con ti”.
Poi l’Italia dei Savoia, la città storica per più di metà demolita e ricostruita, con edificazione di interi quartieri popolari moderni, sventrata, interrata, irriconoscibile. Con mio nonno che travasava su di me le descrizioni e i racconti del suo di nonno.