Fotografare Venezia

FOTOGRAFARE
VENEZIA

Fotografare Venezia è facile, tanto facile. Ogni anno lo fanno milioni di persone. Di solito si mette la famiglia contro uno sfondo gradevole e si scatta, compatta digitale o telefonino, et voilà, la foto c’è. Magari non è ben esposta –un controluce non considerato, le ombre sgradevoli sul viso- ma il ricordino è confezionato, e tutti sono contenti.

Tanti anni fa avevo in mente un libro sul comportamento del turista -c’era un accordo di massima col Touring Club Italiano- e avevo fatto  qualche centinaio di scatti in bianco e nero. Poi non se ne fece nulla. Eppure, a ben vedere è estremamente istruttivo vedere –e capire- cosa e come la gente normale fotografa questa città.

Fortunatamente ci sono i cosiddetti “dilettanti evoluti”, in qualche caso veri, bravi fotografi che però si guadagnano da vivere facendo qualcos’altro. Questi studiano l’inquadratura, considerano gli sfondi e le luci ed infine scattano. Devo ammettere che mi è capitato di vedere cose notevoli. Difficile è fare qualcosa di originale, di costruire un senso ad una sequenza di foto. Per certo la mutevole luce veneziana, il susseguirsi e l’alternarsi delle atmosfere aiutano. Ogni diversa situazione fornisce spunti: la pioggia e il gioco dei riflessi sulla lustra pavimentazione di trachite, la nebbia, l’acqua alta, la neve, i tramonti sono occasioni ghiotte per l’appassionato fotografo.

La fotografia possiede infinite valenze, l’estetica, la documentazione, il piacere di guardare e di cercare (e quindi di scoprire); richiede motivazione, intelligenza, cultura, sensibilità, personalità. Infine, formidabile strumento di comunicazione qual è la fotografia, la trasmissione del proprio messaggio insito in quella sequenza, in quello slide show, in quella mostra personale su Facebook. Qui, abitualmente, casca l’asino. Tutte foto belle, ma slegate, decontestualizzate, risultato fiacco. Avete presente il Carnevale veneziano? Festa recente – 50 anni fa erano ragazzini che tiravano farina, bimbetti-Zorro e bimbette-fatine – è piena di colori, di splendide maschere, di esibizionisti anonimi che posano felici a soddisfare il parossismo fotografico dei turisti. Finita la gita, si travasa sul Pc il contenuto delle schedine di memoria, si tormentano familiari e amici per un paio di serate, infine –tutte inquadrature perfette, luci giuste, cromatismi eleganti, soggetti interessanti- si archivia tutto a futura memoria. Tradotto in pratica, tutto finisce lì.

Non secondario, il ruolo di Venezia (come di ogni realtà). La città è diversa da qualsiasi altra, è curiosa, sorprendente, contraddittoria. Forse non è bellissima come certa retorica impone: il campanile di San Marco e il ponte di Rialto sono brutti, la basilica marciana è un panettone mal lievitato, la Piazza è sbagliata, chiusa com’è sul lato migliore, cioè a sud; per il resto è svuotata, e chiusa. Non c’è un panificio a pagarlo oro. Solo dozzinale ciarpame ovunque, vetrucci e mascherette; in centro, soliti negozi extralusso che si trovano –in fotocopia- a Dubai, ad Atlanta, a New York e Singapore. Eppure Venezia possiede due cose che la rendono unica (anche sotto il profilo fotografico): il fascino e il mistero. E qui, sfocatissima e quasi inavvertibile, c’è l’anima di questa città. Si può benissimo dire che l’imbelle patriziato veneziano, una massoneria imbecille, il piccolo caporale corso e le sue armate imperial-rivoluzionarie, l’aquila asburgica, le bande savoiarde, il fascismo ed infine il centralismo romano hanno cancellato, distrutto, obnubilato questa millenaria civiltà, le sue tradizioni, la sua luminosa aura di storia e cultura. Venezia ha perso i suoi abitanti, la città che “mai diventerà un museo”, è diventata solo museo, alberghi, trattorie care e mediocri. I veneziani? Commesse e camerieri, perlopiù.

L’amarezza del veneziano in me, non si stempera davanti ai restauri mal fatti, seppur ricordi bene la città miserabile e fatiscente della mia infanzia. Il veneziano orgoglio che talvolta emerge in qualcuno si traduce in ottuso livore, in banale e patetico revanscismo.

A migliaia, case e palazzi sono chiusi e disabitati, bene rifugio di stranieri che diventano ogni anno più ricchi per l’incremento del valore immobiliare. Ora, aggirarsi per queste calli deserte, lungo canali dove ormeggiano barchette di plastica a motore, intercalandosi pizzerie e bar, bar e pizzerie, con una macchina fotografica può essere disperante. Eppure l’anima di Venezia c’è ancora, aleggia come una nebbiolina che sfoca il presente e rimanda alla dimensione mitica della gente e della vita della remota Repubblica dei Dogi. La gloria appartiene a otto secoli fa, dogante Enrico Dandolo; lo splendore al sublime Quattrocento fino alla catastrofe del Dogado Foscari che voltò le spalle al mare. Mentre Colombo approdava ai Caraibi –che riteneva fossero le Indie- il mondo si alleava contro questo piccolo Stato e lo metteva in ginocchio. Poi Venezia cambiò, imboccando rapidamente la china del precipizio, sopravvivendo, di illusione in illusione, per due secoli. Mastodontiche architetture di pietra a testimoniare un potere vantato ma svanito, miseria e nobiltà, fulgore dell’apparenza, della commedia dentro e fuori i teatri, dell’arte più sublime, dei casini, delle feste, delle villeggiature. Poi la miseria assoluta, a bollire gatti e sorci, mentre Napoleone violava la Piazza, demolendo una chiesa per farci una sala da ballo, scalpellava stemmi e lapidi, rapinava arredi e opere d’arte, distruggeva con crudeltà sistematica l’Arsenale e la storia della Repubblica. Con gli austriaci che vendevano a poco titoli nobiliari imperiali, riempiendo la città di conti e contesse. Le Terre del Leone, Istria, Quarnaro e Dalmazia, abbandonate e dimenticate, con l’ultima bandiera di San Marco sepolta sotto uno scalino della chiesetta di Perasto alle Bocche di Cattaro, e il grido “Ti con nu, nu con ti”.

Poi l’Italia dei Savoia, la città storica per più di metà demolita e ricostruita, con edificazione di interi quartieri popolari moderni, sventrata, interrata, irriconoscibile. Con mio nonno che travasava su di me le descrizioni e i racconti del suo di nonno.

Orbene, fotografare “questa” Venezia è tutt’altro che nostalgico, ed è assai difficile per chi non è nato qui e -forse- non possiede gli strumenti culturali necessari. È una ricerca continua di elementi eterei, di piccole ma significative testimonianze, spesso solo atmosfere. Talvolta basta salire su un piccolo campanile in certe ben determinate aree, quelle meno stravolte, per ritrovare la Venezia eterna. Oppure vagabondare in Terraferma, a ridosso di Mestre, dove in borghetti di villette a schiera echeggiano le parlate di Castello e di Dorsoduro, della Giudecca e di Cannaregio. In certi casi è meglio documentare per la storia (che ha un senso) piuttosto che giocare a fare gli artisti (che è divertente, appagante, ma sterile). Guardando le mie foto dimenticate di 50 anni fa, le più emozionanti sono proprio queste: soggetti banali, foto naif, esposizioni sbagliate, ma accidenti, Venezia era così. Tutta un’altra cosa.

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