L’INVASIONE DEI NUOVI BARBARI – 1

L'INVASIONE
DEI NUOVI
BARBARI

(prima parte)

Davvero, ad un certo momento, in questa città pare si sia perso il senso del ridicolo. E’ sembrato quasi il riecheggiare di quel mondo di Hans Christian Andersen, nella  fiaba che si intitola “Gli abiti nuovi dell’Imperatore”: tutti vedono il sovrano col pisellino di fuori ma dicono: «Che bel vestito ha il nostro re».

Evidentemente la memoria storica se n’è evaporata negli anni con sussulti di Alzheimer che contagiano tutti, anziani (che alla peggio ne avrebbero titolo) e, ahimè, anche giovani e neo-veneziani. E che gli irrisolti problemi di sempre, in qualche caso persino ulteriormente aggravati, o non siano più tali, o non siano più così importanti, oppure gravi non lo siano mai stati. Affrontiamo qui gli spinosi gineprai di due nuovi concetti veneziani, “decoro” e “venezianità”, ben diversi dalle più note ed accettate categorie “educazione – maleducazione” e “patria – radici”.

La "casa dei 7 camini" alle Terese prima dei restauri

Età e memoria mi aiutano a testimoniare la Venezia di  prima di queste due “spiritose invenzioni”, comparse negli anni ’80. Nei miei ricordi di bambino, Venezia era una città fatiscente, con molti palazzi ridotti ad affollati condomini popolari, con vaste zone “off-limits”, il problema del “bagno in casa”, e i residui della più fedele compagna della città negli ultimi centocinquant’anni: la miseria.

Sopravvivevano gli ultimi casi di pidocchi e di pellagra, i “burchianti” dormivano ancora sotto-prua alla Misericordia; c’erano le ultime “tabacchine” (operaie della Manifattura Tabacchi) e le “impiraresse” (le donne che infilavano le perle); l’Arsenale era ancora in funzione e vi si lavorava a riparare navi; gli squeri inondavano la città col tanfo della pece in ebollizione; i funerali di prima classe avvenivano sulle caorline a remi con le grandi statue dorate ormeggiate davanti alla Madonna dell’Orto; le “scoasse” galleggiavano nei canali dopo il fatidico volo dalle finestre spalancate, «che tanto, sie ore cala, sie ore cresse”. Ci consola solo sapere che allora non c’era niente di inquinante. Oppure il grido “ocio!”, occhio, e dalle case più misere qualcuno svuotava di sotto il vaso da notte: se passava una barca, il contro urlo. “Quei cani dei to morti!”, massima offesa appresa nei secoli dai musulmani levantini.

Vita in calle ai primi del '900
Le "impiraresse" , ragazze che infilavano le perle per farne matasse.
La "casa dei 7 camini" oggi

Quei canali venivano spesso scavati, con inevitabile puzzo di fogna: perché a Venezia -tutti lo sanno e tutti fanno finta di non saperlo- le fogne non ci sono, e qualsiasi liquame finisce inevitabilmente in canale. Tant’è che lo storico divieto di balneazione nei rii -l’osservatore attento in giro per i remoti angoli della città ne scoprirà ancora oggi (forse) qualche antico, sbiadito cartello- aveva essenzialmente significato sanitario a protezione del bagnante; ed oggi è frainteso: chi mette i piedi a bagno in canale “manca di rispetto alla città”, mentre se piscia nel bagno dell’albergo a 5 stelle, nella tazza ceramica il cui scarico è collegato a quello stesso canale, quello è decoro.

Dimenticando peraltro che uno dei massimi monumenti alla civiltà umana, di cui Venezia è stata privata da “lungimiranti” amministratori, fu introdotto da un eccelso imperatore romano di nome Tito Vespasiano, della gens Flavia, l’inventore del Colosseo e della tassa sulla pipì selvaggia.

Escavo dei canali negli Anni Cinquanta

In quegli anni non c’era turismo di massa, a Carnevale non c’erano maschere e i ragazzini tiravano la farina; c’era poco lavoro, e la gente aveva ripreso a trasferirsi in Terraferma, dove le case (brutte ma col bagno) c’erano, il lavoro (magari al Petrolchimico) c’era. Comperare una casa a Venezia non era affatto un problema.

Quella era la Venezia degli ultimi sprazzi del “pittoresco” in cui si diventava vecchi a trent’anni, si veniva ricoverati all’Ospedale Civile in sala comune, un unico, enorme stanzone (il grande corridoio delle celle dei frati), e si moriva ancora di fame. Del crepuscolo di quell’epoca “dorata”, con i casini che non riuscivano ad accogliere tutte le disgraziate che aspiravano a lavorarci, oggi si ricordano solo il “vivace” popolo veneziano, i campi affollati e vocianti, le mille botteghe e i mille mestieri, le presunte “antiche” tradizioni (che quasi sempre “antiche” non erano affatto). Ma se ne dimenticano, tra le mille altre cose, gli ammorbanti odori e i fragorosi rumori delle fucine dei fabbri e dei laboratori dei marangoni tra le case.

Non c’era moto ondoso, il prezzo del biglietto del vaporetto era alla portata di chiunque, i piloti dell’Acnil ormeggiavano con precisione svizzera e tocco gentile, il cielo a Piazzale Roma era reticolato dai cavi delle filovie, il PM10 non era ancora stato inventato, e quel che rimaneva della grande famiglia delle “barche tipiche lagunari” aveva i remi ed era di legno: quelle “tradizionali” di oggi sono pattanelle Brube in VTR ed hanno il 40 cavalli.

Lo squero in Rio dei Lustraferi a Cannaregio

“Per fortuna” è capitato il 4 Novembre 1966. L’inesorabile macchina del “disaster business” che ha per combustibili i “nobili scopi” e le “buone intenzioni” (di cui è lastricata una affollatissima strada) ha inondato per cinquant’anni Venezia con l’alluvione di centinaia di miliardi (di vecchie lire). La città ne è stata inevitabilmente e irreparabilmente drogata, producendo classi nuove, neoricchi e loro mezzani, neo-nobiltà e neo-cultura. E un’assuefazione al denaro che ha funzionato da amplificatore logaritmico e l’ha brutalmente trasformata a senso unico. In questa epocale distorsione, si sono riscritte memoria e storia, e sono stati inventati concetti nuovi, come appunto “venezianità” e “decoro”.

Il primo, a tentare di mettere una ipocrita pezza allo strappo esistenziale ed emotivo di decine di migliaia di veneziani “spediti” nelle oscure campagne di un palestinizzato hinterland, e ormai disconosciuti e dispersi; e con la conseguente usurpazione – da parte degli espulsori – del ruolo di eredi unici e universali di qualsiasi cosa – storia, arte, cultura e relativo diritto di riscriverle e riscuoterne – sia appartenuta ai mille anni della Repubblica. O fasulla, ma ad essa verosimilmente attribuibile.

Il secondo, invenzione snob della “Stagione delle Contesse” proprio in quegli anni di post-alluvione. Con la nascita dei “comitati per salvare Venezia”, i salotti “buoni”, la riemersione dei residui di un patriziato veneziano che aveva fatto di tutto per farsi giustamente dimenticare, e che viceversa tornava a lustrare le sue patacche, come quei titoli di conte e contessa acquistati a poco prezzo alle bonarie bancarelle viennesi dei funzionari di Checcho Beppe.

L’afflato di quella generosità “pelosa” in soccorso della “grande patria” e della “grande civiltà” produsse indubbie cose buone, ma determinò un salto di qualità nel meccanismo di ricondizionamento urbano-sociale di Venezia.

Questa foto, ripresa dalla loggia di Palazzo Ducale, richiede una spiegazione. Un gruppetto di persone, probabilmente non veneziane ma chiaramente dell'entroterra, aveva iniziato a dare la caccia ai colombi e a catturarne alcuni. Era una scena che avevo già visto da bambino. Va detto che anche oggi, uno dei piatti tipici della cucina trevigiana è la "sopa coada" nella quale vengono cotti in pasticcio i colombi torresani. Ricordo che nel Veneziano negli ultimi 150 anni, moltissima gente moriva di fame e non era infrequente che per disperazione ci si nutrisse di sorci, gatti e colombi.
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