“Per fortuna” è capitato il 4 Novembre 1966. L’inesorabile macchina del “disaster business” che ha per combustibili i “nobili scopi” e le “buone intenzioni” (di cui è lastricata una affollatissima strada) ha inondato per cinquant’anni Venezia con l’alluvione di centinaia di miliardi (di vecchie lire). La città ne è stata inevitabilmente e irreparabilmente drogata, producendo classi nuove, neoricchi e loro mezzani, neo-nobiltà e neo-cultura. E un’assuefazione al denaro che ha funzionato da amplificatore logaritmico e l’ha brutalmente trasformata a senso unico. In questa epocale distorsione, si sono riscritte memoria e storia, e sono stati inventati concetti nuovi, come appunto “venezianità” e “decoro”.
Il primo, a tentare di mettere una ipocrita pezza allo strappo esistenziale ed emotivo di decine di migliaia di veneziani “spediti” nelle oscure campagne di un palestinizzato hinterland, e ormai disconosciuti e dispersi; e con la conseguente usurpazione – da parte degli espulsori – del ruolo di eredi unici e universali di qualsiasi cosa – storia, arte, cultura e relativo diritto di riscriverle e riscuoterne – sia appartenuta ai mille anni della Repubblica. O fasulla, ma ad essa verosimilmente attribuibile.
Il secondo, invenzione snob della “Stagione delle Contesse” proprio in quegli anni di post-alluvione. Con la nascita dei “comitati per salvare Venezia”, i salotti “buoni”, la riemersione dei residui di un patriziato veneziano che aveva fatto di tutto per farsi giustamente dimenticare, e che viceversa tornava a lustrare le sue patacche, come quei titoli di conte e contessa acquistati a poco prezzo alle bonarie bancarelle viennesi dei funzionari di Checcho Beppe.
L’afflato di quella generosità “pelosa” in soccorso della “grande patria” e della “grande civiltà” produsse indubbie cose buone, ma determinò un salto di qualità nel meccanismo di ricondizionamento urbano-sociale di Venezia.