Campiello dei Trevisani. Il giro della fontana, la calletta e la fondamenta della Misericordia fino agli scalini per la Reyer li facevo pagare 5 lire. Con la mia bicicletta, s’intende. Era quella che mio padre mi aveva regalato quando avevo compiuto cinque anni, qualche “secolo” fa, e che noleggiavo agli altri bambini. Di pedalate, su quel breve tratto di Venezia ne ho fatte tante, fino al ponte dei Lustraferi, verso gli Ormesini; e dietro, fino alla Madonna dell’Orto, alla Sensa, a Sant’Alvise.
“Pericolo pubblico” mi urlava la donna che stava al pianterreno in una stanzetta, e che -seduta su una sedia- viveva in calle. Non che avesse torto: sulla curva con la fondamenta, capitava di poter centrare qualcuno, una vecchia, un giovanotto, un cane. Dopo un qualche tempo mi ero impratichito, i passanti li scansavo. Due volte, a causa di una brusca frenata sono finito in acqua, una con bici e tutto, un’altra solo io, la bici si era fermata dentro una barca ormeggiata.
Con i pattini si andava male. I masegni non erano il massimo e all’Abbazia, poi, era impossibile per via dei mattoni per terra. Unica possibilità era il bordo della fondamenta della Misericordia, la striscia della pietra d’Istria aveva meno connessioni; spesso, perdendo l’equilibrio, ci si poteva trovare – ahimè- in una barca, ammaccati e sanguinanti di sbucciature. I monopattini di quella volta avevano le ruote grandi, e noi ragazzini li usavamo poco, un po’ per quell’innaturale spingere con una gamba sola, un po’ perché ci si stufava subito, ed era roba da piccoli; con i pattini si riusciva a scendere dai ponti, col monopattino no, o si rompeva o ti faceva cadere.
Per il pallone c’era solo un posto: il campo davanti alla chiesa della Madonna dell’Orto, appena fuori quella “schola” dove c’era una specie di Oratorio. Quella volta a Cannaregio c’erano tanti ragazzini, ed eravamo tutti organizzati in bande. La partita di pallone si svolgeva con le porte segnate a terra da quattro canottiere tenute ferme dai mattoni che prelevavamo da un muro crollato dentro al chiostro. E quando qualcuno chiamava i vigili, era uno sciamare urlante di monelli verso la Sensa, verso il “Casin dei spiriti”, Santa Fosca e l’Abbazia. Il guaio del pallone era che cadeva spesso in acqua: allora, mollavamo gli ormeggi delle grandi caorline nere, cariche di putti d’oro per il trasporto dei defunti, ormeggiate proprio là davanti, e recuperavamo la palla.
Sempre davanti alla chiesa era il campo di gara per il “mazza e pindolo”, una sorta di baseball che consisteva nel sollevare in aria il pindolo (un bastoncino corto, appuntito alle estremità), colpirlo con la mazza, e spedirlo il più lontano possibile, un vero proiettile. Altro gioco che qualcuno più sofisticato faceva era quello che ora tutti conoscono come “badmington”, il volano, due racchette e una pallina con il piumino. In qualche caso comparivano i tamburelli da spiaggia,