ATLANTICO 4

LA BURRASCA
NELLA NOTTE

Ma se di giorno si fila a 7, 8, 9 nodi, e si fa fatica a stare in rotta, di notte è un incubo. Non c’è luna, il cielo è coperto. Buio fitto, non si vede niente. E queste onde-colline arrivano da dietro troppo veloci, con fragore.

La piccola bussola (anche questa invertita) con la luce rossa è troppo lontana per capire bene (con gli occhiali) se è 220 o 230, o 225, la mia rotta, poi ci sono queste onde bastarde che vengono dal traverso e non sempre esattamente da nord. Ogni tanto ce n’è una più alta che viene da un’altra parte. E la barca si gira, e tu a correggere. Poi una straorzata, il fiocco di sopravvento si sventa, va in cappa e ti fa ulteriormente sbandare. Panico, guardi la bussola, non capisci bene, non hai riferimenti.

Istintivamente giri il timone da una parte. Cristo no, è la parte sbagliata. Raddrizzi. Poi ancora correggi, torni in rotta. Ne arriva un’altra, da dietro stavolta, una grossa. La barca non è sul suo asse e si gira a destra, tu la tieni, l’onda passa, e la barca si appoggia a sinistra e gira. No, non è possibile. E così, avanti, avanti, guardi l’orologio: sono montato alle due, sono le due e dieci. Smonto alle quattro. E chi ce la fa. Calma, stai attento. Ecco che arriva, senti che ti tira a destra, correggi. No, no, troppo. Poi a sinistra. Ecco è passata.

Una lotta così con ogni singola onda, da un capo all’altro di questo sterminato mare. L’incubo della burrasca smette quando sale Flavio. Io vado a dormire. È incredibile come si dorma bene -una volta che si è fatta l’abitudine alle posizioni di Gatto Silvestro in una barca in burrasca, in vita mia non ho mai dormito meglio, giuro.

Poi la burrasca durata una sessantina di ore se ne va: è durata due giorni, con una certa coda il terzo. Dopo, i giorni sono passati con un ritmo tutto particolare: timone, cuccetta, cucina, pranzo, piatti, timone, cuccetta…  Abitudine.

Ore 18 di bordo, appuntamento col tam-tam del mare con il fantomatico Deejay a far da ponte da Roma in banda radioamatori (non si potrebbe, ma lo fanno) a incontrare gli altri che sono prima e dopo. Milleottocento miglia da Tobago, mille seicento novanta, mille e quattro. “Mi copri, io sono a.…, vento da est 15 nodi, mare calmo”. “Ho preso un dorado di 8 chili”. Noi invece, uno lo avevamo perso, esca e tutto. Sì, perché in oceano in barca a vela si pesca. Si fila una lenza e ogni tanto si va a vedere. Era diventato compito di Flavio che con le lattine dell’Heineken e gli sfilacci delle cime di nylon faceva esche niente male (per un dorado). Si fa per dire, alla fin fine ne ha presi solo due piccolini, un paio di bocconi a testa. Ci restava il platonico fruscio delle “rondinelle”, i pesci volanti che in gruppo schizzavano dall’acqua per il loro disperato volo per sfuggire a qualche barracuda, e qualcuno capitava in coperta. “Buttalo in acqua, è troppo piccolo e immangiabile”, diceva il Mario.

Di nuovo delfini. A metà Atlantico, uno sbuffo a sinistra, poi due a destra. Eccoli, un intero clan, saranno stati una ventina. A prua mi sono seduto appoggiato al pulpito e ho incrociato a lungo lo sguardo con un cucciolo. Uno sguardo vivacissimo e intelligente. Ci siamo guardati a lungo. Poi è venuta sua madre a chiamarlo e se lo è portato via. Magia.

Quella notte, ormai l’aliseo era stabile, abbiamo fatto “la festa della piega”, quando la linea di rotta incrocia la metà della carta nautica. Champagne Pommery e patatine fritte confezionate e debutto del timone a vento. Sì perché a bordo c’era un vecchio Aries , un affare grosso e pesante che si era rivelato del tutto platonico, perché non ce la faceva nemmeno lui a tenere la “barcaccia”, ed era questo il motivo per cui era rimasto appeso a sbatacchiare a poppa tutto il tempo.

Finalmente basta timone (avevamo timonato a mano ininterrottamente per oltre 2000 miglia). Ma è durata poco. Una notte e un giorno. Poi di nuovo a mano. Una depressione ci ha portato pioggia, calma piatta, vento a raffiche; mare incrociato, ancora. In coperta, con la cerata, fradici per gli scrosci violenti. E aspettavi il temporale successivo che scorgevi alla tua poppa e che avanzava verso di te inesorabile. Magia anche la pioggia nell’oceano. Tutto si ferma, cresce una nebbiolina scura ovattata e iridescente. Pare che il mare vomiti draghi, vascelli fantasma, balene bianche, onde anomale. Poi di nuovo il sole. Bruciante.

Tensioni a bordo. Si sono creati due gruppi, qualche parola detta male e i nervi scattano. Prima si era coalizzati contro lo skipper, perché si faceva servire e riverire, perché faceva il furbo, perché pontificava cazzate. Poi gli uni contro gli altri. Poi i gruppi si sono sciolti e riformati diversamente. Per fortuna, gente adulta, responsabile ed esperta, tutto si è risolto nel silenzio. E la tensione s’è dissolta.

Verso la fine, era ormai il ventesimo giorno, il vento ci ha mollato. Carburante non ce n’era tanto e così abbiamo dato fondo alle nostre capacità veliche per far andare la barca. Su lo spinnaker, occhio alle increspature per preparare l’angolo della vela. Pochi nodi, e il giorno del volo di rientro che si avvicinava paurosamente. Improvvisamente il vento è tornato, ancora burrascata, e stavolta davvero benvenuta. Cento trenta miglia al giorno.

Ultimo giorno. Le mele erano finite, pasta e riso erano pieni di vermi. Patate sì, ancora una ventina di chili: no, basta patate! Anche l’acqua dei serbatoi era agli sgoccioli. Noi eravamo tutti abbrustoliti dal sole, avevamo voglia di terra. L’onda lunga dell’aliseo mandava spesso in surf il “mostro d’acciaio”, fin sotto Tobago.

L’isola era lì, la vedevamo sul plotter, vedevamo le coordinate, la vedevamo sul Garmin, ma non la vedevamo con gli occhi. Ero al timone, gli altri stavano variamente sbracati in giro per la coperta, quando, in mezzo ad una grande nuvola ho intravisto degli alberi. Mi sono sentito molto “piccola vedetta” del Mayflower e, con una buona dose di ironia ho gridato quello che gridano nei film tutti i nostromi dalla coffa: “Terra, terra”. Poi sono sceso a dormire.

La sera non ho cenato, ma sono salito a veder sfilare le luci dell’isola. La mattina mi sono svegliato che eravamo già ormeggiati all’ancora in mezzo ad un piccolo e fatiscente porto commerciale. Della “barcaccia di ferro” ne avevamo abbastanza, abbiamo fatto i bagagli, chiamato una barca e siamo scesi a terra.

“Ciao skipper, la prossima volta l’Atlantico me lo faccio da solo”. Ma il Mario non mi aveva sentito, aveva recuperato l’ancora, rimesso in moto e si stava allontanando. Curioso, era di spalle e aveva alzato il braccio sinistro e ci mostrava, senza voltarsi, il dito medio. Abbiamo incrociato i nostri mefistofelici sguardi sogghignando. Comunque il volo era perso, eravamo “prigionieri” dell’isola per 5 giorni. Beh, avremmo conosciuto questo posto dimenticato da Dio che qui chiamano Tobago.

Tobago. Alla fonda a fianco di questo cutter aurico di Nigel Irens.
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