Mi è capitato di conoscere Elisabetta Terabust, di parlare a lungo con lei, di vederla lavorare. Non ero un amante del balletto classico, non conoscevo l’ambiente; in una parola ero un neofita alieno. Quello che ho imparato da lei è che per una giovinezza perduta attaccata ad una sbarra a soffrire, i piedi sanguinanti, e a sudare, circondata di vipere e serpenti, ti venivano donati dieci, quindici anni di ebbrezza e di applausi e molto rapidamente l’oblio. La signora Terabust era fatta d’acciaio, più dentro che fuori, anche se a sfiorarle una spalla, ti accorgevi che il muro era più tenero. In quel periodo, dopo un’apoteosi fantastica con Roland Petit, era stata chiamata alla Scala -ambiente estremamente difficile- dove ha dovuto lottare per tutto il tempo. Aveva ballato con Erik Bruhn e col suo amante, Rudolf Nureyev; era stata richiesta a Londra. Aveva avuto successo ovunque. Lei piccolina, magra magra, quando era in scena era una forza. E ha ballato tutto, dai classici russi di Petipas alle avanguardie moderne. Di lei dicevano che non si lagnava mai, era sempre decisa e determinata. Ed è stata lei a raccontarmi dell’ambiente, dei suoi rapporti con Carla Fracci e con Bejar , e di come aveva conosciuto Murru e Bolle. Lei non me lo aveva detto, ma avevo saputo che era stata proprio lei a far diventare i due grandi ballerini, due ètoiles. Le avevo fatto delle foto per le locandine di due spettacoli, uno a San Remo e l’altro a Nervi. E poi ho passato con lei una intera mattina in un cortile a San Remo dove stava facendo le prove a scattare un po’ di foto in bianco e nero Le ho ritrovate di recente, ma non sono mai state viste da nessuno e che pubblico qui sotto. Poi l’ho persa di vista, lei è finita a dirigere la sua “casa” di origine, l’Opera di Roma.