LA PERCEZIONE DELL’ARTE

LA PERCEZIONE DELL’ARTE

Anni fa, ad una Biennale Arte di data indifferente, mi trovai davanti al pezzo di muro crollato nello spazio Illy, alle Artiglierie. Aldilà del fatto di cronaca, non avendo ancora visitato compiutamente la sezione all’Arsenale, la mia perplessità iniziale fu: «È un muro crollato o un evento d’arte?»

La questione è meno banale di quel che sembra, anche perché happening simili nella storia di questa kermesse se ne sono visti parecchi. Un caso accaduto nel padiglione spagnolo fu un evento riconducibile al genere. Per chi non avesse fatto l’esperienza di persona lo descrivo:  il sito, tra i primi sulla sinistra entrando ai Giardini, si presentava con un ingresso murato, una signorina indicava un’entrata sul retro dove si trovava un vigilante che avvertiva che si entrava solo con il passaporto spagnolo. Ovviamente era tutta una provocazione per sottolineare politicamente concetti come confine, identità, separatezza. Arte?

Da questo episodio, potrebbe essere interessante cercare chiavi di lettura o atteggiamenti mentali davanti a quello che propone una situazione “aliena” in Biennale. Come vedere? cosa capire? Perché qui non c’è la rassicurante storiografia dell’arte guadagnata sui banchi del liceo, che pure tanto ci appaga nell’andare per musei; qui gli alfabeti, i linguaggi, le strutture, i messaggi possono essere assolutamente diversi e nuovi, non collocabili da noi -a qualsiasi livello culturale- in alcuno schema noto (se non lo sbordare in discipline fuori contesto).

Da molti anni, quel genere di manifestazioni che -per carenza di definizioni- continuiamo a chiamare “ARTE”, altro non sono che veicolazione di idee, che usano un contesto “artistico” per ottenere una qualche aura comunicativa che le estragga dalla palude dell’opinionismo di massa, le collochi sotto un qualche riflettore e dia loro una qualche dignità. A loro modo, medialità che tentano una via autonoma e che rappresentano tutt’altro: un individuo, una cultura, una razza, una lobby, un’idea, un secondo fine. O pura casualità che sfida l’intelligenza (il muro caduto è un happening voluto da qualcuno?).

Certo, non vale la pena di riaprire la questione -chiusa e sepolta- sul concetto di Arte, ma viene però da discutere sull’uso che del “sublime archetipale” viene fatto da chi lo produce e da chi lo consuma.

Un muro crollato è ovunque solo un muro crollato; in Biennale no, può essere qualcos’altro. Il perché ci viene, per l’appunto dal “valore auratico” del contenitore. Un muro che cade dentro la Biennale può effettivamente essere un’altra cosa.

Il “sublime”, la distillazione del pensiero che assume forma ed espressione, oltre il valore auratico di Benjamin, gode di altre caratteristiche che affondano nella motivazione comunicativa di chi le pone in essere. La grande difficoltà dello sperimentatore è l’individuazione di un meccanismo semantico: come rendere riconoscibile il segno? come esprimerne i paradigmi e la struttura? come attribuirgli valori e dargli forza comunicativa?

La risposta è teoricamente semplice e sta nel concetto base della semiotica di Pierce “Un segno non è un segno se non è riconosciuto come un segno”, ben rappresentato dal quadro della pipa di René Magritte in cui sotto una pipa -per voluto eccesso di comunicazione- sta scritto: “questa è una pipa”. Si dà per scontato che chi guarda sappia cos’è una pipa, e si dà per acquisito che l’ironia della tautologia sia divertente per chi la guarda e che sia riconoscibile il suo messaggio ironico/ideologico.

Una esercitazione che ci fu utile, ad esempio, davanti alla “Pop Art” in cui il “nulla dichiarato” prese consistenza concettuale e rese (meritatamente?) celebri e ricchi i suoi autori. O negli esploratori materici alla Burri, fino ai barattoli fecali di Pietro Manzoni.

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