Chiuse, museificate, non visitabili, lasciate a marcire. Idolatrate, vantate e poi vilipese e infine abbandonate. Raramente abitate, riusate -quelle fortunate- come municipi per piccoli comuni. Oppure trasformate in agriturismi, buoni per episodici sponsali e raduni aziendali; o in B&B extralusso col bilancio problematico; o sterilizzate e affidate al benemerito FAI, coccolati cadaveri in un cimitero culturale mummificato con biglietto, visita guidata domenicale e chiusura alle 18. O peggio, diventate ruderi, non più restaurabili. In generale -a detta di qualche proprietario – non sono riscaldabili, non sono ristrutturabili o frazionabili, richiedono restauri costosissimi e continui: “non sono economicamente gestibili”.
In pratica, questi magnifici monumenti di architettura, cultura, costume e società, simboli di un aspetto importante della grande civiltà veneziana, non sono più usabili: sono edifici alieni in un mondo che non è più il loro perché hanno irrimediabilmente perduto il ruolo e le funzioni per cui erano state edificate.
Queste intricate problematiche fortunatamente non sono cadute nel vuoto.
Cito -paro paro- quello che scrive Wikipedia: “A partire dal secondo dopoguerra, alcuni intellettuali (come Giuseppe Mazzotti e Giovanni Comisso) e alcune mostre risensibilizzarono stato e enti nei confronti del problema della tutela delle ville venete, cadute in profonda decadenza a partire dalla fine del XVIII secolo. Da qui nacquero le prime iniziative di privati cittadini, volte alla valorizzazione e al restauro, finché, il 6 marzo 1958, si arrivò alla fondazione dell’Ente per le ville venete, rimasto in vita fino al 1978, anno della scadenza naturale del consorzio. Dall’Ente, nel 1979, ebbe vita l’Istituto regionale ville venete, attivo da allora e promotore di iniziative economiche e culturali legate alle oltre quattromila ville presenti sul territorio di Veneto e Friuli. Grazie alla loro valorizzazione, molte delle ville venete sono divenute motivo di attrazione turistica.”