L’emozione si spegne subito. Era inevitabile, ma l’averlo preventivato mi rende ancora più pungente questo senso di assenza. Dietro la facciata triste del Selva le fiamme bruciano anche quest’ultima illusione. Parole, idee, sentimenti si affollano, oggi come in quella notte di fuoco; percorrendo il foyer, salendo le scale, addentrandomi nei meandri di retropalco, riemerge l’effimero dei ricordi. Si fa presto a dire teatro, a dire Fenice. Luogo fisico e metafisico, in sé banale e bugiardo, delle metafore dell’uomo e della musica degli immortali che ti sublima, visceralmente, i sentimenti. Luogo dell’anima e dell’eco dei suoi canti, della memoria privata di taluni splendidi, brevi attimi di luce.
Questa Fenice c’è. Per chi si accontenta. E lì, inno alla “determinazione positiva”, anche se il “com’era – dov’era”, nato dall’equivoco di un grande senso di colpa, era una duplice, irrealizzabile condizione. Da veneziano lo sapevo prima, da critico, lo constato ora. Ma è come se questo teatro, dentro di me, bruciasse, ancora e ancora.
Questa Fenice adesso c’è. Forse è importante che ci sia. Si è levato un vasto coro di osanna, troppi. Non è che nessuno si accorge che l’imperatore è nudo? Per me, veneziano di radici antiche, non la riconosco, non mi evoca nulla, non la amo. Stento ad immaginare l’algore cristallino del Debussy di un Arturo Benedetti Michelangeli in queste filologicamente rinate Apollinee “di plastica”, ricordando il baluginare spento e grigiastro dei cristalli di piombo che sfrangiava riflessi nei corrosi argenti delle specchiere e negli ori anneriti delle cornici.
Vago con la mia guida fin sul palcoscenico. Scosto il pesante sipario Biagiotti e, davanti alla grande sala del teatro vengo immerso nell’infantile stupore per una colossale torta napoletana di marzapane costellata di confetti multicolori, impudicamente sfavillante come una di quelle pacchiane bomboniere (d’un orecchiato Capodimonte) da matrimonio flegreo di terza classe. Un qualcosa di stonato che appartiene alla categoria del decorativismo popolar-melenso delle agiografie beatificatorie, santini, capitelli e altarini, di età umbertina, all’horror vacui dei “carrousel” franco-partenopei con i cavalli di legno con i pennacchi delle sagre di provincia.
Salgo scale e scale. Mi affaccio dal loggione su un’apoteosi di rococò post-risorgimentale, post-borbonico, caricaturalmente partenopeo (lontanissimo dall’eleganza del San Carlo), fasullo e ingiustificato. Irreparabilmente senza poesia, senza cultura: perduta per sempre la sottile eleganza monocroma degli ori bruniti, dei pastello ingrigiti, delle sfumature dei velluti consunti, in un’atmosfera di nobile decadenza.
Com’è possibile aver fatto “questo” in una città con la più alta percentuale mondiale di architetti residenti, con una delle facoltà di Architettura più rinomate al mondo, con una Biennale che richiama i massimi progettisti dei cinque continenti, investendo per di più una cifra spropositata di denaro pubblico? Chi non ha osato ripartire dall’oggi, pensando a una struttura per il grande pubblico che ama la musica e non a una “replica” per l’ormai inesistente minuscola borghesia veneziana ottocentesca? Tecnologie da spettacolo, magari con un Jean Nouvel, come a Lucerna, o un Renzo Piano, come a Roma. Architetture del tempo, di una civiltà capace e desiderosa di rappresentarsi nell’oggi, e che non nasconde la sua aridità dietro un malinteso senso di colpa per le fiamme di un incendio: in fondo tutti i teatri bruciano, prima o poi. Perché non si è fatta una di quelle elegantissime casse sonore, legno e tecnologia, macchine da scena, da suono e da spettacolo per un pubblico finalmente vasto, per gestioni finalmente attive? Come si fa a fare oggi un teatro da 900 posti e pensare che non diventi un buco senza fondo di finanziamenti statali? Macchine, invece, per due, tre, quattromila. Efficienti e vere, lussuose nei materiali e spettacolari negli spazi, senza suggestioni patetiche.
Né com’era, né dov’era. Forse? Certamente meglio.
Si è scelto il luogo delle radici supposte delle generazioni di illustrissimi e di miserrimi, dei due volti eterni di quell’antica oligarchia baldracca, che dietro bautte e morette celebrava l’apparenza, la felicità bugiarda, il potere infingardo e inconsistente, nella serata alla Fenice.
Si è pensato che quelle radici fossero -sbagliando vistosamente- ancora vivo legame e linfa della città. Come un tempo nella città dei 18 teatri, quando “stucco e pittura”, “maschera e riso” erano un intreccio truffaldino e mendace dell’essenza veneziana; non più metafora umana ma esteriorità, rappresentazione distorta, artifizio scenico. Palcoscenico -di qua e di là del boccascena- di una civiltà che amava rappresentare sé stessa “en travesti”, in platea e in barcaccia, negli occhieggianti palchetti, nel “reale” come in loggione. E nello sciamare, finito lo spettacolo, per gondole peccaminose, postriboli e ridotti, cavalchine e fagiolate, trattorie e locande, palazzi e casupole, cantando ancora nella notte.
Quando? Non lo ricorda più nessuno.
Vecchia Fenice, spenta anch’essa negli anni delle generazioni che sono cambiate e che hanno lottato per adeguare a sé stesse il mondo. Stanca Fenice, dei cartelloni sempre e inesorabilmente tutto esaurito e delle stagioni in passivo, rito autunnale e invernale nella fissità di un continuum noioso e rassicurante -per pochi- che chiamavamo tradizione, ma che altro non era che incapacità di cambiare, volontà di non cambiare. Surrogato di eternità a poco prezzo.
Il teatro ora è chiassosamente nuovo, pronto per entrare nel passato delle generazioni future. Tecnologico d’avanguardia, con ancora l’odore delle plastiche di protezione e delle epossidiche dei truciolari impiallacciati, i colori sfavillanti dei poliuretani, i multistrati tecnologici, i botticini da condominio, i battiscopa da case popolari, le balaustre e le ringhiere da periferia, i marmorini squillanti da hotel “cinque stelle” del turismo di lusso di massa, le troppo baluginanti gocce di cristallo all’arsenico, i pastello volgari e troppo carichi.
Diverso non si poteva, lo sapevo.
Speravo nel rigore di Aldo Rossi, soprattutto dopo l’interessante prova genovese del Carlo Felice; nel suo amore per il “Genius loci”, per le sue magie delle forme e le atmosfere dei suoi volumi: lo ho trovato talvolta tradito (destino frequente dei grandi architetti), talaltra frastornato e confuso in sé, perduto a giocare con modellini in scala gigante di piazze rovesciate per dentro a citare banalmente (e inutilmente) calvinismi palladiani (prima e altrove erano arruffati Bramante), o ad arrischiare improbabili carpenterie piranesiane in travature reticolari da falegnameria brianzola. In un amaro incontrollare di volumi e di spazi, di materiali e di odiati “dettagli”. Opera postuma, e purtroppo i morti non possono più difendersi.
Stringeva troppo quel “com’era – dov’era”, era l’urgente risposta alle fiamme di quella notte. Un malinteso senso di colpa e l’eccesso di zelo, insieme ai pasticci dei burocrati, hanno condotto a quel che si pensava fosse il risultato da tutti voluto. Esattamente questo? È vero, a qualcuno piacerà. Come queste maschere inventate che infestano i negozi di souvenir.
Noti gli attori, nota la vicenda, quali altre aspettative covavo nell’animo? Quali speranze? Dunque perché sentirmi deluso o tradito? Rabbia per quel fuoco, rabbia per questi “competenti”.
Non voglio, non so tacere. Anche se, nel bene e nel male, questa Fenice adesso c’è. Non mi piace, non mi evoca nulla, non la amo.
Purtroppo è l’unica Fenice che mi è stato dato di riavere.