L’INVASIONE DEI NUOVI BARBARI – 2

L'INVASIONE
DEI NUOVI
BARBARI

(seconda parte)

Via XXII Marzo, Linda e Begi

Con il nuovo concetto di “decoro” degli “eredi unici” della venezianità si promuoveva infatti su scala urbana un concetto piccolo borghese domestico, che seppur corrispondesse originariamente all’autoidentificazione veneziana mediante la proprietà immobiliare, era stato banalizzato. Non si pensava che avrebbe potuto funzionare, ma invece andò alla grande.

La svolta fu talmente radicale da determinare l’immediato impoverimento della biodiversità sociale e il susseguirsi di alcune nuove specie dominanti. La Venezia di oggi nasce esattamente allora.

Si ascrissero a queste nobilitate classi di veneziani “proprietari immobiliari”, (retrodatandoli) meriti e qualità mai posseduti prima, attribuendo valori e valenze definiti “tradizionali” ma che erano stati inventati appena il giorno innanzi; generalizzando e storicizzando alcune ridicole velleità in tema di costume e moralità veneziani.

Con le Leggi speciali ci si guardò bene dal “salvare Venezia” (tant’è che il Mose è ancora d’attualità 50 anni dopo la sua invenzione, e il problema dell’acqua alta è ancora allo stesso punto di quel tempo), ma si sono fatti grandissimi affari, sia a livello immobiliare sia a coronamento di “cartelli” e “monopoli” che oggi sono i veri padroni della città, tanto a livello anagrafico che sociale.

Oggi che la cuccagna è finita si piange: dopo aver vissuto “da siori” per trent’anni -e il capitale messo prudentemente al sicuro- il futuro non appare più tanto roseo e garantito.

Fu in quegli anni che si perfezionarono concetti come “tu-in-casa-mia” e “tu-ospite”, e soprattutto si scoprì la necessità di “difendere” Venezia da non meglio identificati “nuovi barbari”. Fatto salvo “turarsi il naso”, quando serviva. Abitazioni meglio chiuse, che «tanto, da come sta andando la Borsa, il mattone di pregio tira, tira…», e l’immobile aumenta sempre più di valore, senza farci nulla.

Non importa se la città non è più viva e non è più usabile da un suo popolo che la possa riadattare continuamente a sé; la si è preferita conchiglia sterilizzata e museificata, il cui valore auratico goethiano è stato esaltato e stereotipato in funzione del marketing: ricercando un’immagine “colta” e “civilissima” per un suo più efficiente ed organizzato sfruttamento economico, e a salvaguardia dei vari, piccoli, potentissimi monopoli. Con tentativo di scrematura selettiva della classe utente.

Già in antico, di queste “sporche” operazioni i veneziani ne fecero di analoghe, per altri scopi o per assecondare altre opportunità, smobilitando e sloggiando tutti gli squeri del Canal Grande, esiliando i vetrai veneziani a Murano, facendo nere tutte le gondole, vietando i merletti, o marginalizzando le prime industrie nei più remoti angoli di Cannaregio, Dorsoduro, Castello, o espulse alla Giudecca.

Dall’alluvione del ’66 è prevalsa la logica dei “tre porcellini”: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Ed è appunto la categoria dei “tre porcellini” che è la più sfegatata a difendere il “decoro” e a propugnare la propria vantata “venezianità”.

A distanza di tanti anni dall’origine del fenomeno, ha buon gioco quindi quella fetta di città arroccata nei suoi privilegi e difesa dai suoi recenti crociati. Si sa che col passare del tempo la memoria affievolisce e si mescola; ed avviene esattamente come nel sincretismo religioso o nelle deviazioni della semantica: una cosa che prima era mia adesso è diventata tua, e se prima voleva dire “A”, adesso vuol dire “B”.

Ponte dell'Accademia, Begi e Linda
Carlo Goldoni

Va detto che se esiste -anche storicamente- e sopravvive linearmente una sola qualità del “veneziano”, questa è certamente la tolleranza. Virtù “bassa”, però, perché -nella fattispecie- deriva da due fattori: il “menefreghismo” e l’”opportunismo”. Civiltà mercantile e bizantina, Venezia fu ancor più pragmatica -se mai fu possibile- dell’Inghilterra. Le logiche di “profitto” e di “minima perdita” valsero tanto per gli affari quanto per la politica e l’etica (pensiamo ai turchi). Con l’unico scopo di riuscire a “guadagnarci comunque” e di “sopravvivere comunque”.

Quanto alle altre conclamate “serenissime virtù” che rimbombano in taluni consessi, ricordiamo Giordano Bruno ospite a Venezia, impacchettato proprio dal suo anfitrione Giovanni Francesco Mocenigo e consegnato da costui al rogo dell’Inquisizione, e Francesco Morosini, il “Peloponnesiaco”, celeberrimo ammiraglio e poi doge, a cui si deve la realizzazione dei frammenti del timpano di Fidia del Partenone, allora ancora intatto – da lui fatto bombardare per distruggere e far saltare in aria la santabarbara turca che vi era installata – conservati al British Museum. O a Carlo Goldoni lasciato a patire la fame -e a morire- nella soffitta di rue Pavé-Saint-Sauveur a Parigi. E infine, il più clamoroso di tutti, Antonio Vivaldi, uno dei massimi musicisti della storia umana, morto in miseria a Vienna e sepolto in una dispersa fossa comune, totalmente dimenticato per due secoli e riscoperto soltanto negli Anni Trenta del secolo scorso.

O a tutte le luci e le ombre di una civiltà e di uno Stato che non siamo più noi e che non c’era già più quando iniziarono ad udirsi dalla piana e dai lidi le lontane note della Marsigliese del perfido ex-caporale dell’isola dei pirati tirreni.

Antonio Vivaldi
Antonio Ermolao Paoletti - A raccogliere vongole in barena
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