Anche se l’appuntamento era semestrale, la cenetta all’antico Martini era consuetudine piacevole che si rinnovava ogni volta. Quest’appuntamento con i ricchi cowboys, con i principi della toga di New Orleans, con i poeti miliardari di New York in transito dalle boutiques di Rue Faubourg Saint-Honoré alle millenarie, coltissime pietre di Giza, fino alle Mercerie veneziane aveva creato un nuovo tipo di stanziali, i ricchi intrattenitori. Faceva molto “su” avere il pied-à-terre sul Canal Grande per ricevere gli sconosciuti compaesani di passaggio. Il servizio bar veniva fornito oliato e quasi perfetto da Rosa Salva, specializzata in tartine al caviale e al salmone, vin rosé e squisitezze affini. Né faceva più effetto vedere nelle varie case, durante i vari party, sempre gli stessi camerieri, tanto anche la gente era sempre la stessa. Era ormai lontano il tempo dei Chiarini all’Excelsior che pilotavano il bel mondo tra star di celluloide e bikini audaci. Tanto lontano che neppure la vociante regata storica si discostava di molto dall’emotività piatta di un comizio, a voce profonda, di Ronald Reagan.
Che Venezia fosse stata la capitale del Levante, che Torcello fosse stata qualcosa di più di un’isoletta sperduta, lo sapevano tutti. “25 $ per salvare Venezia” e c’era chi offriva anche qui la discount card, iniziativa dell’americano Venice Committee del colonnello Grey e della super-efficiente Daiana nella Schola di San Giovanni Evangelista, in vivace competizione col Venice in Peril dell’ex ambasciatore inglese in Italia, sir Ashley Clarke. Si esplorava, si illustrava, si spiegava, si andava, per città e per laguna. Ma a Torcello c’era ancora una volta Cipriani, a Venezia c’era Peggy Guggenheim da andare a salutare, anche se lei ignorava nella maniera più totale chi la stesse abbracciando così calorosamente. Poi qualcuno di Londra o di Filadelfia si ritirava qui alla Pensione Calcina alle Zattere per dipingere lagunette kitsch e fiorellini pop con cocciutaggine, cassettina dei colori e cavalletto, dietro alle Gallerie dell’Accademia, estasiato dallo squero di San Trovaso.
Ma quelli importanti, pur avendoci casa, non c’erano mai, e quando c’erano era come se non ci fossero. Rimaneva Peggy a fare da guardia con i suoi cagnetti al Canal Grande. Cà Venier dei leoni, palazzo incompiuto, abbandonato dalla licenziosa Marchesa Casati in fuga dai creditori, ha un giardino notevole, oggi tutto pieno di Giacometti, di magnolie, di Henry Moore, di allori e di altri arbusti dai rami secchi e cadenti. In androne e nella barchessa pioveva su Magritte e Max Ernst, mentre in salotto la puntina del giradischi saltellava sui dischi. Era un misto living di astratto e di surreale nella più “antica città del futuro” dove la vita – come in questo caso- stratificava in maniera strana. Da lei, Peggy, un umettante segretario di nome John compariva e scompariva in sgargianti kimono malesi, l’invadente Roloff Beny esondava nelle stanze con le sue fotografie da impaginare per l’editore di New York. Io dabbasso con un inquietante Pollock sopra il letto per quelle due settimane di condanna ad intrattenere gli ospiti per colpa della Paulon. Ho odiato lui e il suo squallido “dripping” da ubriaco. Di sopra, peggio che in commedia, altri infiniti personaggi apparivano inopinatamente in scena, dalla biondina svedese veloce con bimbo alla ventiquattrenne miliardaria divorziata di Baton Rouge, ai solitari trasvolatori di oceani disponibilissimi a passare il weekend volando dalle mandrie del Texas fino alle robuste pennellate del Tintoretto, dall’altra parte del mondo. In pratica però il Marino Marini a cavallo sul terrazzo rimaneva da solo col suo bronzeo pene eretto a sfidare caparbiamente il moto ondoso della laguna. Vacuità.