VENEZIA E IL MUSEO CHE NON C’E’

VENEZIA E IL MUSEO CHE NON C'E'

Volendo prenderla da lontano, all’inizio fu il trofeo, la preda, sottratta alla tribù vinta, o la statuetta del dio locale: era comune convincimento che più statuette si raccoglievano, più potere ne derivava.

Facendola veloce, dalla preistoria passiamo alle stive delle galere e delle cocche veneziane dal Dandolo in poi, che, utilizzando una tecnica ben nota sin dall’antichità, tornando vuote dopo lo sbarco dei crociati, abbisognavano di zavorra. E quale zavorra migliore di quelle bellissime colonne efesine o siriane, bizantine e greche di città abbandonate o quasi? Quelle belle sculture dei palazzi che parevano disabitati, ovvero pagate poco o fatte sparire nella notte per “salvarle” dalle mani infedeli. O pura e semplice “ruberia”…

Per arrivare ai fregi dei timpani e dei cornicioni del Partenone -oggi al British Museum di Londra- acquistati dagli inglesi a piccolo prezzo dai turchi. Quel roviname non era poi così male, se qualche scaltro britanno già vi aveva scorto la mano di un “tale” Fidia: vecchie pietre e sculture rotte che ai turchi interessavano poco, dopo che erano state tirate giù a cannonate dai bombardieri di Francesco Morosini in quel 1687, assedio di Atene, nell’intento -peraltro riuscito- di far esplodere la santabarbara turca contenuta nel grande ed ancora intatto tempio dedicato da Pericle ad Athena sull’Acropoli.

La mania del trofeo era poi sfociata nella mania del bello, culminata nel parossismo dei neoricchi contemporanei di Augusto e di Nerone, col Mediterraneo attraversato da flotte cariche di capolavori originali per imperatori e generali, e copie, e copie di copie per i freschi aristocratici. Sculture, bronzi (di Riace e simili), sepolcri, capitelli e colonne, in un bric-à-brac secolare di rifacimenti, adattamenti (cambi di teste), cambi d’uso (capitelli-vere da pozzo), di cui fu inarrivata maestra sin dal suo primo apparire, la curia di Roma. Antiche, incomparabili collezioni romane, transitarono direttamente nei palazzi dei cardinali, e da qui ai loro luoghi d’origine, originando un costume: Venezia ad esempio, il cardinale Domenico Grimani si fa per dire (oggi si chiama Museo Archeologico). E furono oggetto di scambio: il bello e il potere furono sempre strettamente collegati.

L'elegantissimo allestimento delle sale delle Gallerie dell'Accademia (museo nazionale)

La magica parola “museo”, oggi semanticamente deviata e corrotta in luogo polveroso, pieno di ragnatele e di antiche cose dimenticate, in origine era quel luogo delle Muse, le ninfe delle arti, cui corrispondeva la loro casa, l’Iperuranio, luogo divino dei prototipi della bellezza, e che aveva per oggetto e scopo, appunto, il “sublime”.

Un genere nuovo, questo, affrontato -un po’ prima di Kierkegaard, Hegel e Adorno- nel I° secolo da Dioniso Longino con un trattato sulla querelle tra i seguaci di Apollodoro di Pergamo e di Teodoro di Gàdara su uomo e arte (facezie da secchioni).

Di tale “sublime”, inteso però poi solo come bellezza – trasfigurazione del potere, si sono riempiti i palazzi di generazioni di imperatori e re, generali e cardinali, duchi barbari e aristocratici del denaro. Finché, quando si spensero gli sfavillanti lumi del “buio medioevo”, e si accesero quegli altri del sanguinario Rinascimento, nei luoghi del denaro dei mercanti di stoffe e d’indulgenze, dei banchieri e dei politicanti, il raccogliere trofei e bellezza non bastò più, e se ne produssero di nuovi (orecchiando l’antico). E il “sublime” fu prodotto “in casa”. Firenze, Roma, Venezia, le Fiandre… Fu rappresentazione di sé, apoteotica e roboante.

Finché la storia cambiò, per le strade di Parigi, ad inseguire con Robespierre nuove, borghesi utopie artistiche, sotto il ferreo controllo delle accademie statali (finché durò).

Fu così che Venezia, millenario trait-d’union con l’antichità, cadde due volte, uccisa prima nel corpo e poi nell’anima. Con le soldataglie bonapartiste a scalpellar lapidi e a riempire i carri di “trofei”. Quel suo “sublime” distrutto in parte, e in parte disperso.

Né la sua anima ebbe miglior sorte, cancellata da Napoleone e dagli Asburgo, dai Savoia e dai loro supporters massoni, infine dai fascisti e dalle loro velleità imperiali che riattingevano alle fantasie virgiliane, saltando duemila anni di storia (involgarendo e falsificando per sempre l’onorevolissimo saluto romano e il significato di potere imperiale del fascio littorio), e dall’antifascista centralismo romano che ha spianato definitivamente tutto il resto.

Gallerie dell'Accademia, la sala di Bosh

La mutilata salma di Venezia giunge così fino a noi, suoi figli -legittimi o bastardi- e ai suoi innamorati. Orfani rieducati ad altri affetti ed altri orgogli, a raccattar frammenti, a ricostruire con fatica quell’antico legame, alla ricerca del senso antico di “quel” sublime.

Ed eccoci ai musei veneziani: primariamente luoghi di tutela e conservazione (con problemi di denaro, personale e spazi), rimasti a questa prima fase. Trascinati dai tempi alla seconda, il mostrare. Ma senza colmare quel vuoto di conoscenza profonda, cancellato come le lapidi e poi dimenticato.

Collezioni di opere, capolavori in sé, ma di valenza più alta, in quanto frammenti di un unicum “storia, civiltà e cultura”, esposti come conchiglie. Seppur egregiamente tutelati, didascalizzati con esaurienti cartellini, guide e sussidi multimediali, sono però privati di quel comune afflato che li rendeva consentanei a Venezia, cioè senza quel tessuto che ad essa intimamente li legava.

Oggi sono preda e motore di quel fenomeno che viene chiamato “turismo culturale”, quasi una risorsa primaria, mineraria diremmo (non li chiamano forse “giacimenti culturali”?). Fermati a questa funzione di macchina per far denaro che pare soddisfi tutti, ma che non rende onore alla loro esistenza. Cose da sfruttare, finché dura, ma snaturate del loro significato olistico complessivo, fatte parlare solo per quella parte, pur rilevantissima, del “sé per sé”, arte-artista-opera; e dunque, mutilate del proprio senso più vasto. Col solo vantaggio di essere transitate da un mondo elitario privato ad uno pubblico, offerti egualitariamente a chicchessia, comitiva frettolosa e superficiale e radi acuti intenditori.

Più volte, seppur contestato da irrilevanti Tizio e Caio, ho ampiamente dimostrato che a Venezia non ci sono musei! Solo collezioni transitate sotto le ali del centralismo romano che, obnubilati gli aborriti Savoia, ben si è sempre guardato di dar vita a quell’organico monumento storico e culturale che sarebbe il “MUSEO” di Venezia.

Di fatto, l’unico grande museo è Palazzo Ducale. Ma oggi è un enorme scatolone vuoto, con i suoi inamovibili teleri giganti, gli stucchi e una risicata collezione di armi; il Museo Navale è museo sì, ma della Marina Militare Italiana, con qualche modellino di galera e di Bucintoro; il Correr, con il volenteroso raccattare e “riconfezionare” una caricatura del “quel che resta” dello scempio bonapartista, sorte comune con il Ca’ Rezzonico e le napoleoniche Gallerie dell’Accademia alla Carità (quando vi finirono le opere sottratte a chiese e conventi -massa immane- che non erano già transitate verso Brera, Parigi e i mercanti internazionali a rimpinguar le casse dell’effimero imperatore); Ca’ Pesaro, volonteroso tentativo di recuperare brandelli della vivace ma scomoda eredità storico-artistica del periodo austriaco e degli ultimi conati della pur già defunta Repubblica e poi alimentati dalle opere di giovani e sconosciuti artisti locali, ma lasciandosi scivolare tra le dita, come urlava sempre Peggy Guggenheim al mite Guido Perocco, tutta l’arte del Novecento che era transitata per le Biennali. Il Museo di Storia Naturale nato da varie collezioni private e dalle scoperte di Giancarlo Ligabue, che di Venezia parla solo in termini di biologia, mare e laguna.

E Venezia? Restano l’Archivio di Stato (destinato a colti specialisti), le “scuole” e le chiese. Il tutto superficialmente disorganico, rappezzato, parziale e raccogliticcio. Nulla di solidamente organico, scientificamente testato, storicamente articolato e orgogliosamente dispiegato. Il peggior coacervo della improvvisata approssimazione -che “tanto, a chi interessa?” – della trista parata della piccola politica che qui si è srotolata nei decenni del Novecento, fino ad oggi.

Si era sperato nell’Arsenale, ma questo è oggetto di ben altri appetiti. Forse tra qualche generazione qualche “illuminato” arriverà.

Prima che tutto finisca sott’acqua per i cambiamenti climatici…

La Scuola Grande di San Rocco, massima concentrazione dei capolavori del Tintoretto.
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