L’anello di Bali

L'anello di Bali
l'isola degli Dei

A metà degli anni ottanta, la mia produzione fotografica era diventata di routine. Così decisi di fare un viaggio in Estremo Oriente: Singapore, Malesia, Indonesia e Hong Kong. L’obiettivo era realizzare le riprese per una monografia su Bali, “l’isola degli dei”. Avevo letto anche di una cerimonia di purificazione, detta “malukat”, un soggetto intrigante. Misi nella mia borsa la mia attrezzatura da reportage, un corpo Nikon F3 e tre ottiche, le mie preferite: un supergrandangolo 20 mm,  un 28 decentrabile, un 105 e un piccolo duplicatore di focale (tutte luminose e super-incise). A completamento 20 rullini Kodachrome 25 e 20 Ektachrome 64. Questa è la storia.

Sara, il giovane cameriere del Kupu Kupu Barong che mi accompagnava, aveva fermato la sua Honda per fare benzina. Io con la mia accostai, cercando un po’ d’ombra. Eravamo entrambi stanchi e impolverati. Il dorso delle mie mani, bruciato dal sole, mi faceva male e il collo mi si era intorpidito.

La salita a Kintamani era stata faticosa, la strada stretta e piena di buche. La gita in motocicletta si stava rivelando un’impresa superiore alle mie forze. I pini e le palme, i banani di montagna e le felci giganti interrompevano in squarci nebbiosi la valle che digradava nell’oceano. Besakih e il suo grande tempio erano a poche decine di chilometri, terribilmente lontani. Ripartimmo lentamente. Un paio d’ore e i tetti del complesso religioso si stagliarono contro le nuvole che avvolgevano il vulcano. L’aria era tiepida e pesante; un gruppetto di pellegrini saliva lentamente la scalinata; le donne, ondeggiando con grazia, reggevano sul capo le offerte, variopinte composizioni di fiori e frutta.

Il guardiano del tempio mi avvolse i fianchi con una fascia e mi fece firmare un registro. Gli feci un’offerta di cinquecento rupie. Varcata la soglia, una delusione: la spianata di terra battuta era pressoché deserta e le capanne sacre erano in uno stato di abbandono. I pellegrini che avevo incontrato si erano concentrati in un angolo.

Appartata, sotto una tettoia, un’anziana stava intrecciando foglie di palma. Davanti a lei alcune oche beccavano il riso delle offerte. Mi vide e mi chiamò, tendendo la mano. Sara mi fece cenno di andare. Lei non parlò, mi fissò a lungo. Con le mani prese a tracciare cerchi nell’aria, sopra la sua testa. Ed indicò me. Le feci segno di non aver capito. Lei, per tutta risposta, iniziò con le braccia ad aprire l’aria davanti a sé. Ed indicò, ancora una volta, me. Ml volsi verso Sara, ma lui non c’era più. Era lontano che parlava con il guardiano del tempio. Andai a sentire.

 

«E’ una santa», mi disse, «deve aver visto qualcosa sulla tua testa e te lo voleva dire». Mostrai all’uomo i gesti che avevo visto fare alla vecchia, ma lui alzò le spalle e si allontanò. Sara ne capiva quanto me. A disagio ce ne andammo. Il ritorno verso Bangli e Ubud durò un’eternità. Non ci fermammo sino a casa. Pensavo continuamente a quei cerchi e a quel nuotare nell’aria. Ero confuso. Dormii male. L’indomani alle 7, puntuale, arrivò Agus con il pullmino dell’agenzia. Agus parlava sempre. Partimmo alla volta di Karangasem, l’antica capitale. Il cielo era nuvoloso, grigio. Lasciammo sulla destra Goa Gaiah e la Grotta dell’Elefante, imboccando la via di Gianjar. Per strada il solito caos, ll solito smog. Venimmo in discorso. Avevo ancora in testa quella vecchia e quei gesti. Agus cominciò a ridere. Io non parlai più. A Klungkung gli dissi che volevo scendere.

C’erano numerose botteghe. Una in particolare mi aveva colpito, la roba esposta era vecchia. Non antica, solo vecchia. Entrai. Due ragazze stavano mettendo in ordine una vetrinetta. Non parlavano inglese. Di Agus ne avevo abbastanza, volevo arrangiarmi da solo.

Dal retro usci una cinese vecchia e piccola. Le feci capire che cercavo argento antico. Mi fece andare in uno sgabuzzino, trasse un mazzo di chiavi ed apri un cassetto. In una scatola di cartone, una manciata di anelli. Ce n’era uno primitivo, costava poco e lo comprai. In ombra, sul fondo ne vidi però un altro che non mi pareva cosi vecchio. Lo presi in mano. La donna mi toccò il braccio e mi disse in una sorta di inglese: «Tu bisogna questo, tu prende». L’anello era strano, gigantesco, cesellato finemente, con due teste mostruose e una pietra dura color ocra, venata di nero. «Tu bisogna questo, tu prende», insistette. Contrattammo. Era d’argento ma costava poco. Comprai anche quello. E iniziò a disegnare cerchi sopra la sua testa, proprio come avevo visto fare alla santona di Besakih. Indicò prima l’anello poi me, e aprì l’aria con le mani. «Tu bisogno».

Ero stupefatto. Corsi fuori e chiamai Agus mostrandogli l’anello. Adesso lui non rideva più. Lo spinsi nella bottega e gli feci chiedere alla donna il senso di quei gesti. «Ha visto qualcosa sulla tua testa e dice che l’anello può mandarla via. Ma l’anello deve ricevere nuovo potere, cosi non serve. Dice che devi andare al villaggio di Bajing. Oltre le risaie c’è un ponte e la casa di un uomo. Lui può farlo».

 

La strada era quella che s’inerpicava al grande tempio. Per arrivare al villaggio piegammo a destra, tra banani e risaie. C’era il ponte, c’era la casa, c’era l’uomo.

Mostrai l’anello e mi toccai la testa. Lui fece segno di aver capito, lo prese e bofonchiò qualcosa. «Dice di tornare domani mattina alle dieci», tradusse Agus. Quella notte non dormii del tutto. La mia razionalità occidentale era in confusione. Non mi consolò nemmeno la cena, zuppa di granchi, un’aragosta e una San Miguel gelata. Le onde dell’Oceano si frangevano nel buio sulla barriera corallina con un rumore sordo. Io fumavo. Pensavo e fumavo.

Agus, l’indomani mattina, parlava poco. Mi ero accorto che lui mi guardava, ma quando alzavo lo sguardo, girava la testa e guardava altrove. Venne l’ora. Tornammo a Klungkung, svoltammo verso Besakih, arrivammo a Bajing. Ai margini della strada una cerimonia, le donne con le offerte colorate sul capo, gli uomini a due a due- con piccoli tabernacoli su una portantina. Nessun turista.

Scendemmo. Cominciai a scattare foto, la luce e i colori erano unici. L’uomo del giorno prima mi toccò la spalla. Era vestito di bianco. Mi prese per mano e mi disse. in inglese: «Ti stavamo aspettando, è tutto pronto. Andiamo». Le donne con gli ombrellini sacri iniziarono la processione. Le seguirono le ragazze con le offerte e le anziane con i canestri. Poi, appresso, gli uomini con i tabernacoli. Io stavo di retroguardia e fotografavo tutto: ero sopraffatto dalla bellezza della scena. Ma l’uomo in bianco tornò indietro, mi prese per mano e non mi lasciò più fino al piccolo tempio in mezzo alle risaie. I tabernacoli furono allineati, le offerte deposte lì davanti. La gente si accovacciò per terra. Fui fatto spogliare. Due anziani mi diedero un sarong e mi aiutarono ad indossarlo. Mi misero ai fianchi una fascia rosa-violetto, in fronte un’altra fascia, poi una donna molto vecchia a seno scoperto mi applicò dei chicchi di riso crudo alle tempie e in mezzo agli occhi. Una ragazzina sistemò due fiori bianchi sulle mie orecchie. Gli uomini iniziarono un canto lento e dissonante. Il dukun -l’uomo in bianco- mi fece star ritto con le spalle al tempietto, davanti a tutti. Congiunse le mani e cominciò a pregare con voce gutturale, variando di continuo il tono e il ritmo.

 

Mi sentivo ridicolo. Mi fece bere e sputare per tre volte dell’acqua. Dovetti masticare una manciata di riso crudo e fui spruzzato a lungo con acqua profumata da un mazzetto di fiori selvatici. Lui continuava a mugolare forte di gola e a pregare. Poi si interruppe. Tirò fuori il mio anello e prese ad alitarci sopra con una specie di rantolo. E mugolava ancora. E alitava. Me lo infilò al dito sorridendo, mi toccò la testa allontanandone di scatto le mani come stesse scacciando qualcosa. Il malukat, la purificazione, era compiuto. L’anello aveva di nuovo il suo potere.

Sorridevano tutti. Sorridevo anch’io. Mi sentivo sciocco. Stranamente leggero.

Ed ero felice.

L'inaspettato
epilogo

Qui finisce l’articolo per il mio giornale, uscito il 5 gennaio del 1988. Il mistero, la magia, il folclore. L’Oriente pittoresco che la nostra cultura occidentale superficialmente conosce ed ingenuamente ama. Ma non finiva qui. Qualche giorno dopo questo evento, finite le ultime riprese fotografiche, aggiornati i miei taccuini (pensavo di farci un libro)  e salutati i miei nuovi amici, sono salito su un piccolo bimotore da Denpasar alla volta di Giakarta per tornare a casa. Con l’animo sempre leggero ho fatto il check-in e, in attesa della chiamata, ho vagabondato per le botteghe del duty-free. Sono stato catturato da una gioielleria che vendeva soprattutto giada: collane, braccialetti, piccole sculture. Tra le vetrinette ce n’era una con gioiellini d’argento, elefantini, uccellini, pendaglietti da braccialetto. Mi volto e vedo un anello. Ma non un anello qualsiasi, uno che era identico al mio. Ho fatto un sobbalzo. Ed ho cominciato a ridere, e a ridere. Fino alle lacrime, che si sono voltati tutti. Poi la chiamata all’imbarco. In volo ripensavo alla mia storia; comunque, mi era andata bene; la vecchia cinese me lo aveva venduto per trenta dollari, al duty-free ne volevano 180. Avevo vissuto una piccola avventura, conosciuto gente fantastica, avevo la borsa piena di foto eccellenti, e il “malukat”, fosse quel che fosse, col senno di poi, aveva funzionato…  

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